Per un vero fotografo una storia non è un indirizzo a cui recarsi con delle macchine sofisticate e filtri giusti.
Una storia vuol dire leggere, studiare, prepararsi. Fotografare vuol dire cercare nelle cose quel che uno ha capito con la testa. La grande foto è l’immagine di un’idea.
Volevo dedicare una sezione alle danze popolari ma istintivamente mi è venuto di collegare a qualcosa che avesse a che fare con la Fede. Frequento con piacere ambienti in cui la cultura e le tradizioni popolari fanno da denominatore comune ed è da sempre, per me, immediata l’assonanza tra tradizioni popolari e Fede, quest’ultima intesa sì nel senso religioso ma non per questo rivolta ad una Divinità ben definita.
Nelle danze popolari come la tarantella, la quadriglia, la pizzica e tante altre il suono ed il ballo diventano essi stessi “divinità”. C’è un rispetto ossequioso di regole e dettami delle danze come dei ruoli che in esse assumono i danzatori, i musicisti, i “tammorrari” e chiunque ne prende parte. La religiosità dei gesti però, a differenza delle religioni occidentali in genere, è una religiosità con fondamenti che quasi scompaiono nell’atto danzante. Sebbene ogni attore conosca alla perfezione il proprio ruolo ognuno di essi libra altrove permettendo che le proprie membra si lascino trasportare dalle vibrazioni dei suoni di castagnette, tammorre, organetti e piatti.
Quello che ne scaturisce è un rituale messianico colorato ed allegro in cui i corpi diventano estensione del suono, materia volatile e leggera. Al pari di un’epifania o di una rinascita le danze popolari celebrano echi di radici e di conquiste, di lotte e sentimenti dove l’amore sfida i generi, dove la donna è al pari dell’uomo, dove il vile perentoriamente viene sconfitto dalla comunità che fa dell’unione una fede inscindibile dalla musica che, in queste manifestazioni, rappresenta la Vita stessa.