Qualche giorno prima della partenza preparavamo una grossa valigia di pelle tra il verde scuro ed il nero. Con la A112 di papà la portavamo in stazione, lì veniva pesata ed etichettata affinché potesse essere caricata sul treno che l’avrebbe portata in quel piccolo e sperduto paesino della Calabria in provincia di Catanzaro: Crucoli! Solo nel ’92, quando Crotone è stata investita del titolo di Capoluogo di Provincia, Crucoli è migrata sotto la sua giurisdizione provinciale ma all’epoca la “targa Crotone” era solo un argomento da ombrellone. Appariva strano che avrebbero dovuto usare la KAPPA come prima lettera perché tutte le combinazioni erano già state usate per “targare” altre province.
In quella valigia c’erano generalmente le vettovaglie e le cose un po’ più pesanti ed ingombranti come l’ombrellone e la sedia a sdraio, che poi erano quasi le sole che ci sarebbero servite. La spedivamo con il treno in modo da poter viaggiare più comodamente durante le dodici ore e più di viaggio che di lì a qualche giorno avremmo affrontato, tra cambi di treno, coincidenze e treni superlenti che ci avrebbero portato a destinazione sull’allora sconosciutissima costa Ionica.
Viaggiavamo di notte, in modo da poter riposare qualche ora, all’inizio in cuccetta ma ero troppo piccolo per ricordarlo. Mia madre, a capo della spedizione, carica come una mula tracciava il percorso di stazione in stazione, di binario in binario e noi tre figli al seguito come degli anatroccoli che seguono mamma anatra nello stagno sghignazzando impazienti di potersi tuffare, dopo un intero anno, nelle acque cristalline di quel mare sconfinato che ci aspettava.
Ci aspettavano i sassi levigati in riva al mare, l’enorme spiaggia bianca ed i fondali altissimi, le barche dei pescatori appisolate sulla spiaggia su travi di legno con a bordo reti, galleggianti arancioni e puzza di gasolio. Ci aspettavano i nostri amici di vacanza, le loro famiglie che ogni anno si ritrovavano sotto gli stessi ombrelloni, portati da casa, e le stesse stuoie di paglia distese sulla sabbia. Ci aspettavano i racconti di scuola, di strada e dei momenti trascorsi nella reciproca assenza. Ci aspettavano i bagni di mezzanotte ed i falò in spiaggia , le discoteche “primitive” ed i gelati mangiati seduti sul muretto del lungomare con i piedi a penzoloni che ritmicamente tallonavano sul cemento grezzo.
I primi anni andavamo da Rocco, un ferroviere, il quale ci affittava una casa nella sua palazzina, a pochi passi dal mare, per l’intero mese di luglio. Al piano terra della palazzina Rocco aveva una pescheria in cui lui e i suoi due figli maschi, lavoravano. Franco, il figlio primogenito credo, se ne andava in giro urlando in dialetto per tutto il paese con una bici dotata di un tavolo al manubrio su cui posizionava il pesce fresco in bella mostra per venderlo nelle stradine, arterie di vita sorvegliate giorno e notte da vecchiette vestite di nero sedute su sedie di paglia sugli usci delle proprie case. Col passare degli anni si decise di cambiare casa ogni anno, senza mai prenotare prima dell’arrivo. Giunti a Crucoli mamma girava per il paese ed in poco tempo, un’ora o due al massimo, trovava l’appartamento più adatto che ci avrebbe ospitato per la nostra vacanza estiva. Bastava fermare qualcuno del posto o parlare con una delle vecchiette sedute sugli usci per avere informazioni in merito a case sfitte, condizioni economiche, igieniche e perfino dettagli sulla vita privata dei padroni di casa.
Avevo undici anni l’ultima volta che trascorsi le vacanze lì: era il 1988! Mio fratello maggiore aveva ormai diciassette anni e mia sorella sedici, erano adolescenti, avevano le loro amicizie ed esigenze diverse da quelle di un bambino undicenne a cui interessava starsene a mollo in acqua per quanto più tempo possibile. Una delle consuetudini di quelle vacanze era quella per cui l’ultimo giorno mi veniva concesso di restare in acqua senza limiti! Ricordo che costringevo mia madre a scendere in spiaggia di mattina prestissimo per poter approfittare con ingordigia assoluta del meraviglioso patto. Di mattina presto anche il mare dorme e le onde sembrano muoversi come il diaframma di un gatto che dorme, immobile, su un divano dello stesso colore del cielo. Scendevamo in spiaggia prestissimo e trascorrevo l’intera giornata tra mare e bagnasciuga armato di qualunque oggetto potesse contribuire a rendere indelebili quegli ultimi ricordi dell’estate che ormai stava per terminare. Cercavo sassi piatti da far rimbalzare sull’acqua, scavavo buche in riva al mare fino a trovare l’acqua, imbastivo castelli di sabbia e sassi e mi fondevo con l’acqua del mare con maschera, pinne e qualunque altra cosa fosse degna di condividere quei momenti affinché potesse essere anch’essa parte indimenticabile di quella estate.
Quest’anno ho deciso di ritornare lì, in quel baule immenso di ricordi d’infanzia, un baule dove molte cose sono ormai ingiallite, dove molti protagonisti sono essi stessi bauli.
Rocco è morto, non serenamente, l’anno scorso! Me lo ha detto Franco, il figlio, che continua ad avere una pescheria ma non più lì: a Cariati, il paesino vicino. Per puro caso la casa che ho affittato si trova proprio di fronte alla palazzina di Rocco dove stavamo da bambini. Gli ho scattato qualche foto di mattina presto, mentre preparava il pesce da portare in pescheria: sotto casa mantiene ancora il deposito del pesce con le celle frigo.
La spiaggia, un tempo larghissima, si è ridotta ad un piccolo lembo ed in alcuni punti è sparita del tutto ed i lidi, che prima erano dei “check point” dove comprare il primo gelato da portare in spiaggia, ora appaiono come palafitte sull’acqua.
Il mare invece, quello è rimasto lì ad aspettarmi, cristallino e puro esattamente come nei miei ricordi. La mattina me ne sono andato a fotografare l’alba, a vedere quel Sole spuntare dal centro della scena e dipingere di rosso e blu tutto ciò che gli capitasse davanti. Il mare immobile, fermo, che lasciava un po’ di spuma in riva solo per farmi capire che era lì, vivo, che stava solo dormendo!
Quest’anno ho deciso di ritornare lì per riprendermi da quel baule tutto ciò che non volevo andasse perduto. Quest’anno ho trascorso una settimana come se fosse l’ultimo giorno di vacanza sentendo dentro di me di avere, da qualche parte, ancora undici anni.
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