I postumi della guerra persistono in chiunque l’abbia vissuta, come in “Allucinazione perversa”

I postumi della guerra persistono in chiunque l’abbia vissuta, come in “Allucinazione perversa”

Non so se esiste un nome specifico per descrivere questo fenomeno, ma credo sia successo a tutti di sognare che un luogo noto si trasformi in qualcosa di sconosciuto. La sensazione che provoca questa tipologia di sogni varia a seconda del contesto: alle volte può essere una sorpresa, una stanza in più in casa, un cortile che diventa un giardino immenso; altre volte, quando il sogno è più un incubo che un piacevole percorso notturno nella nostra psiche, l’ignoto è perturbante. L’idea che qualcosa di familiare si trasformi in una versione spaventosa e irriconoscibile di sé è quanto di più destabilizzante possa succedere durante l’attività onirica, dal momento che agisce su un livello doppio di spaesamento, prima il sentimento di protezione che ci stimola un posto noto, poi il salto nel vuoto nella consapevolezza della sua distorsione. È così che vive Jacob Singer, il protagonista di Allucinazione perversa, il film cult degli anni Novanta disponibile su Mubi e presente nella rassegna La città che non dorme mai. Solo che nella sua storia, ossia quella di un combattente tornato dal Vietnam, il confine tra il sogno e la realtà non esiste più. E ciò che solitamente si interrompe quando ci svegliamo di soprassalto e ci rendiamo conto del fatto che è tutto finito, continua a espandersi nella realtà del protagonista come in un labirinto infinito, dove ogni passo in avanti lo conduce sempre più lontano dalla serenità, giù in fondo tra le pareti di un incubo infernale. 

I film che raccontano l’esperienza dei soldati che hanno vissuto in prima persona la guerra in Vietnam sono molti, a riprova della centralità di questo fatto storico nella coscienza collettiva statunitense. Anzi, si potrebbe dire che il cinema americano del secondo Novecento è pregno di questa narrazione: pensiamo per esempio a uno dei cortometraggi d’esordio di Martin Scorsese, The Big Shave, del 1967, dove un uomo si rade davanti allo specchio fino a procurarsi ferite che grondano sangue, immagini che si concludono con la scritta Viet 67, chiaro rimando a ciò che stava succedendo in quel momento con la guerra. La cosiddetta “New Hollywood”, quella di Kubrick, Spielberg, De Palma, Coppola e molti altri, su tutti Scorsese stesso, racchiude un’epoca cinematografica in cui il tema del Vietnam e delle sue conseguenze sull’apparato sociale degli anni successivi, specialmente nei suoi strati più popolari e abbandonati dal sistema di assistenza, è fondamentale. Taxi driver, capolavoro di Scorsese del 1976, parla di un tassista ex Marine che soffre di insonnia cronica, nevrosi e disturbi psicotici sviluppati dopo due anni in guerra. La sua alienazione e la sofferenza provocata da quella esperienza lo portano a compiere un gesto di estrema violenza come riscatto contro l’ipocrisia di una società che lo ha reso un reietto, dopo averlo usato come braccio armato. Lo stesso tipo di sentimento è evidente anche in un altro film di culto come Full Metal Jacket di Stanley Kubrick, dove la violenza sui giovani coscritti per il Vietnam si divide in due parti: l’addestramento umiliante e repressivo della prima parte che porta al suicidio del personaggio Palla di lardo, l’impatto deumanizzante e cinico della seconda, sul campo, che si conclude con l’emblematica marcia di Mickey Mouse cantata dai soldati. Così come Apocalypse Now, di Francis Ford Coppola, dove il racconto di Joseph Conrad, Cuore di tenebra, si riadatta alla cornice del Vietnam e della follia che pervade l’esercito statunitense in preda a deliri di onnipotenza e ammutinamenti, o come in Forrest Gump, dove l’ingenuità del protagonista, animo puro e indifeso, si trova sommersa dall’orrore della battaglia, tra la morte di amici innocenti e le conseguenze devastanti su chi è tornato a casa mutilato, non solo fisicamente ma anche su un livello psicologico molto profondo.

Nel racconto del Vietnam di Allucinazione perversa, traduzione italiana di Jacob’s Ladder, la simbologia cristiana si mescola con uno stato allucinatorio in cui vive il protagonista. Già dal titolo originale si capisce l’intento metaforico dello sceneggiatore che ha pensato e scritto il film, Bruce Joel Rubin: la scala di Giacobbe è un episodio biblico descritto nella Genesi, e la scala in questione è un luogo in cui la terra e il paradiso si uniscono, un punto di transito per gli angeli. Così come nei film sopracitati, anche nel lungometraggio diretto da Adrian Lyne la rappresentazione di ciò che è stato il Vietnam passa attraverso non solo il conflitto sul campo, ma soprattutto l’impossibilità del suo superamento una volta finito. Solo che, in questo caso, il protagonista non si trova né del tutto sul terreno di battaglia né del tutto nel mondo “normale”: Jacob, un ex dottorando in filosofia che dopo la guerra ha deciso di “smettere di pensare” diventando un postino, è in un vero e proprio limbo. Se il Vietnam è l’inferno, che ritorna prepotentemente con flashback e ricordi intrusivi che infestano le notti e i giorni del protagonista, la vita a New York che ha costruito dopo il suo ritorno è uno stato a metà tra la dannazione e la salvezza. L’unica via per il paradiso, che nella vita di Singer sembra impossibile da raggiungere, sembra essere la morte, la fine della sofferenza e l’abbandono totale dei ricordi dolorosi che lo portano a uno stato di disperazione confusionaria, incubi in cui ciò che era la sua vita prima della guerra diventa un accumulo di immagini spaventose, distorte dal dolore. Quella di Jacob è una lotta costante tra un passato insuperabile e un presente invivibile: “La sola cosa che brucia all’inferno è la parte di te che rimane aggrappata alla vita: i ricordi, gli affetti. Ti bruciano via tutto. Non lo fanno per punirti, ma per liberarti l’anima,” gli dice infatti il chiropratico che lo aiuta, citando il filosofo Meister Eckhart. 

Ma la condizione allucinatoria e angosciosa in cui si trova Jacob Singer non è solo uno stato emotivo generato dal trauma della guerra, lo shell shock, ossia il disturbo da stress post traumatico di cui tanti soldati, in particolare dalla prima guerra mondiale in poi, hanno sofferto. La metropolitana di New York lo chiude dentro i suoi tunnel, le feste con gli amici diventano un teatro di orrori e mostruosità, la sua compagna si trasforma in un demone dagli occhi neri e vuoti mentre litigano e una serie di creature spaventose si manifestano nella sua quotidianità, trasformando luoghi che un tempo erano familiari e sicuri in macellerie umane dentro cui lui è solo un pezzo di carne. Le visioni del protagonista, rese possibili da effetti speciali mai usati fino a quel momento e che hanno consacrato Allucinazione perversa come cult del genere – oltre al fatto di essere l’ispirazione per la fortunata saga di giochi Silent Hill – sono talmente vivide da piegare gli archi temporali della sua vita. Non solo il Vietnam ritorna con le immagini più violente e inspiegabili, quando il suo plotone è impazzito, con soldati americani in preda alle convulsioni e che si uccidevano tra di loro in un impeto fratricida fuori controllo, ma anche la vita passata dell’ex accademico si ripresenta in questo turbine di flashback e disorientamento: il suo matrimonio precedente, il figlio che ha perso, la casa dove ha vissuto prima di essere trascinato in guerra. Ciò che all’inizio sembra solo un sogno, con l’avanzare del film diventa sempre più vivido, portandoci a sospettare di cosa sia la verità e cosa sia parte dei deliri del protagonista. E la soluzione al delirio di Singer non riguarda solo lui come soldato e come uomo, ma parte da un progetto ben più grande.

Jacob Singer, e così i suoi commilitoni, sono stati sottoposti a un esperimento condotto dall’esercito americano. Lo scienziato che ha portato avanti questa ricerca, dando loro una sostanza chiamata appunto The Ladder, preso dal rimorso di aver trasformato degli esseri umani in mostri, sperimentando sulla loro pelle una sostanza che li rendesse sempre più aggressivi, lo confessa al protagonista che trova finalmente un senso a tutto ciò che ha vissuto dopo la guerra. “It was reported that the hallucinogenic drug BZ was used in experiments on soldiers during the Vietnam war. The Pentagon denied the story”, dice la nota sul finale di Allucinazione perversa. Che gli ex combattenti del Vietnam siano vittime di mostri infernali, demoni e altre creature horror è la licenza poetica che prende questo film, volutamente iperbolico e surreale. Ma le mostruosità e i danni psicologici e fisici che hanno subito gli uomini coinvolti in questo conflitto sono reali, tanto vividi da essere diventati l’oggetto della rappresentazione del miglior cinema americano degli ultimi sessant’anni. Se l’incubo è uno stato temporaneo in cui ci troviamo e dal quale possiamo scappare con il semplice risveglio, i postumi della guerra – qualsiasi guerra, non solo quella del Vietnam – persistono nella mente di chiunque l’abbia vissuta. Allucinazione perversa è la testimonianza romanzata, ma verosimile, di una delle tante vite in cui l’incubo non è più finito.


“Allucinazione perversa” è disponibile in streaming su MUBI. Iscriviti qui per guardarlo gratis e ottieni 30 giorni di prova. 

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